L’Italia ha da poco concluso la sua più importante olimpiade di sempre. 40 medaglie di cui alcune pesantissime, che si aggiungono alla vittoria nell’Europeo di Calcio. Un’estate di vittorie e soddisfazioni per il nostro sport. E come ogni altro appassionato di sport non posso che essere felice per tutto questo. Di queste olimpiadi però c’è una cosa che mi è rimasta impressa anche più dell’oro di Marcell Jacobs. Sono le parole e le scelte coraggiose di Simone Biles che hanno rotto il silenzio di stadi senza pubblico. Per la verità se n’è discusso poco, troppo poco, dalle nostre parti. Molto di più al di là dell’Oceano. Simone Biles è arrivata a Tokyo con il peso di essere considerata da molti come la migliore ginnasta della storia.
Essere degli atleti di quel livello da fuori può sembrare tutto rose e fiori: le medaglie, i viaggi in giro per il mondo, le persone che ti acclamano. Dietro però c’è una realtà molto diversa, che nell’ambiente tutti conoscono ma di cui si parla pochissimo. Fino alla scelta di Simone che si è ritarata prima dalla competizione a squadre e il giorno seguente da quella individuale. Simone ha dichiarato di non stare bene mentalmente, aprendo una discussione su stress, ansia e depressione negli atleti. Michael Phelps ha dichiarato “Spero che questa sia un’opportunità per iniziare a dare il giusto peso alla salute mentale degli atleti”.
Simone non è la prima atleta a soffrire di questi problemi, ma certamente una delle poche ad avere avuto il coraggio di parlarne. Durante il recente WTA250 di Tennis che si è svolto a Parma una giocatrice tra le prime al mondo si è lasciata sfuggire questa frase durante una conversazione privata “non ne posso più di giocare, io in realtà non vedo l’ora di smettere.” Alcune volte però il peso del fallimento diventa così grande da essere insopportabile. E’ il caso di Kokichi Tsuburaya, maratoneta giapponese che nelle prime olimpiadi di Tokyo nel 1964 arrivò terzo sorpassato a pochi metri dal traguardo. Kokichi dopo la gara disse di aver commesso un errore imperdonabile davanti al popolo giapponese e di dover rimediare. Ci provo sulla pista, ma alcuni infortuni gli impedirono di partecipare alle olimpiadi di Città del Messico del 1968 e così Kokichi si tolse la vita con al collo la medaglia di bronzo.
Mi piacerebbe che dopo i più che giusti festeggiamenti per queste 40 medaglie si prendesse sul serio il monito di Simone, si aprisse finalmente una discussione senza tabù sulla salute mentale degli atleti, ma anche di tutte le altre categorie, si insegnasse ai ragazzi che non esiste successo che non passi dal fallimento. Perché, in fondo, come diceva il monologo di un vecchio film “la corsa è lunga e alla fine è solo con te stesso”.