La scuola che vorrei

Avevo in mente di scrivere queste righe da alcune settimane. Ho deciso di farlo oggi perché è arrivata una notizia che ritengo molto positiva, ma andiamo per gradi. Da anni sono convinto che il nostro sistema educativo si basi su un paradigma sbagliato e cioè che la scuola abbia come compito prioritario di preparare i giovani al mondo del lavoro. La nostra scuola istruisce tanto ed educa poco. Per la verità vi è una scuola che lavora soprattutto sull’educazione dell’individuo (in questo caso bambina o bambino) ed è la scuola dell’infanzia, ma come sappiamo non fa parte della scuola dell’obbligo. Dalla prima elementare invece la quasi totalità del tempo è dedicata a trasferire informazioni ai nostri figli che gli permettano di apprendere nozioni che gli serviranno in ambito principalmente lavorativo. Per la verità le nostre scuole sono piene di insegnanti che hanno compreso la centralità del loro ruolo nell’educazione dei ragazzi e cercano di colmare queste lacune con progetti speciali che non gli vengono retribuiti. Lo fanno semplicemente perché ci credono.

Viviamo in un momento storico particolare dove le persone sono più propense a migrare per lavoro (non per forza da un paese ad un altro, ma anche solo da una città ad un’altra) e così facendo ai ragazzi viene a mancare una rete familiare che supportava i genitori nell’educazione. Accade quindi che le famiglie si appoggino maggiormente alla scuola usufruendo sempre più del tempo prolungato e di servizi quali pre e post-scuola, così come delle associazioni sportive (ma di quest’ultimo aspetto parleremo in un’altra occasione).

Viviamo in un contesto in cui il mondo degli adulti è disarmato e incapace di dare risposte a tutti quei disturbi relazionali e di comportamento che possono sfociare in fenomeni quali bullismo e baby gang da un lato, ma anche di reazioni opposte quali l’autoisolamento (il cosiddetto fenomeno degli Hikikomori) o di altre forme depressive. Problemi che a ben guardare, sono tutt’altro che appannaggio dei soli giovani, ma che invece rischiano di peggiorare con il passaggio all’età adulta e possono sfociare in fenomeni quali lo stalking o – peggio – la violenza di genere. Tutti questi comportamenti sono il sintomo di un problema comune: l’incapacità di stare in mezzo agli altri, di relazionarsi, di provare empatia, di comprendere e riconoscere le emozioni proprie e quelle degli altri, di gestire l’affettività, la rabbia e la paura.

L’equivoco che ci ha portato a tutto questo è figlio di un modello sociale ed economico orientato alla competizione e la crescita. Anche questo argomento meriterebbe un approfondimento specifico che mi riprometto di fare nelle prossime settimane. Oggi mi limiterò ad un aneddoto esemplificativo. Alcuni anni fa, durante uno dei seminari di un forum annuale sulla pubblica amministrazione, mi sono ritrovato relatore assieme ad una persona che si occupa di orientamento al lavoro e questa rivendicava con orgoglio che loro vanno nelle scuole già dalla prima elementare. Ho risposto senza tanto girarci intorno che tutto ciò mi fa paura. In quell’occasione ho avuto la sensazione che per qualcuno i nostri ragazzi siano ingranaggi al servizio di un sistema e non il contrario.

Come dicevo in apertura però c’è una notizia positiva che va proprio nella direzione auspicata: la Camera dei Deputati ha approvato un disegno di legge che inserisce nella didattica le competenze non cognitive. In sostanza si avvierà una sperimentazione triennale in cui ai ragazzi verranno insegnate empatia, pensiero critico, gestione delle emozioni e tutti quegli aspetti che più in generale non riguardano il processo delle informazioni. Sono veramente soddisfatto e spero si comprenda come una sperimentazione triennale non sia sufficiente a dare dei risultati, in quanto politiche di questo tipo producono effetti significativi e duraturi, ma solo nel lungo periodo. Con l’obiettivo ambizioso di formare individui consapevoli ma soprattutto felici.